lunedì 11 aprile 2011

Culto dell’Avanguardia e Cultura di morte




“Interrogai sul mio Dio la mole dell'universo, e mi rispose: "Non sono io, ma è lui che mi fece". Interrogai la terra, e mi rispose: "Non sono io"; la medesima confessione fecero tutte le cose che si trovano in essa. Interrogai il mare, i suoi abissi e i rettili con anime vive; e mi risposero: "Non siamo noi il tuo Dio; cerca sopra di noi". Interrogai i soffi dell'aria, e tutto il mondo aereo con i suoi abitanti mi rispose: "Erra Anassimene, io non sono Dio". Interrogai il cielo, il sole, la luna, le stelle: "Neppure noi siamo il Dio che cerchi", rispondono. E dissi a tutti gli esseri che circondano le porte del mio corpo: "Parlatemi del mio Dio; se non lo siete voi, ditemi qualcosa di lui"; ed essi esclamarono a gran voce: "È lui che ci fece". Le mie domande erano la mia contemplazione; le loro risposte, la loro bellezza. [...] (1) Tardi ti amai Bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti amai” (2).

Queste righe mirabili sono state scritte da un teologo che è vissuto tra la metà del IV secolo e l’inizio del V, in un paese che più tardi sarebbe stato chiamato Algeria. Era dunque, come si diceva ancora negli anni 50 in Francia, un “Nordafricano”. E’ anche uno dei Padri della Cristianità, e porta il nome di Agostino.
Si è potuto vedere in questo passaggio delle Confessioni una prova cosmologica dell’esistenza di Dio. Io sarei tentato di vedervi una prova estetica. Dio è perché tutta la creazione testimonia della sua opera e quest’opera è bella. Dalle leggi che regolano il movimento dei corpi celesti fino a quelle che reggono l’organizzazione del corpo umano, la bellezza è una promessa che non è mai stata tradita. C’è un nomos cristiano così come c’è stato un nomos greco. C’è una Ragione propria alla cristianità come c’è stata una ragione antica, un logos, ma di un’altra natura. Allo stesso modo, metaforicamente, l’opera d’arte è una gioia continuamente rinnovata, fondata su regole e anch’essa logos, che ha preso forma e senso.

Ma è anche una legge etica: solamente l’uomo può umiliare la bellezza. Quel che ancor oggi risuona alle nostre orecchie in modo così sconvolgente è, in Agostino, la stupefacente descrizione, biologica, fisiologica, di ciò che le manifestazioni della bellezza esercitano sui nostri sensi. Agostino si rifà ai quattro elementi, l’aria, il fuoco, l’acqua, la terra per ricordarci che entrano attraverso le cinque “porte della carne”: lui guarda “con gli occhi fissi”. Altrove ancora, dice che questa presenza del mondo creato da Dio “squarcia la sua sordità”, “dissipa la sua cecità”, provoca il suo gusto, e arriva fino al punto da far nascere in lui delle sensazioni, che definisce “di fame e di sete”. Ma noi abbiamo il potere di sublimare o al contrario di svilire le sensazioni che entrano attraverso le porte della nostra carne.

In questo forse consiste la potenza e la singolarità della religione che annuncia e che diffonderà in Europa: questa religione è fondata sul dogma di una incarnazione, l’apparizione di un corpo, di una carne, di un Figlio a immagine del Padre, un’osmosi tra la creazione e il creato, tale che Dio arriva fino al punto di incarnarsi in un uomo. Essa è fondata anche su questa idea a dire il vero impensabile, scandalosa, quella di una Risurrezione dei corpi, fino all’ultimo capello che si ha sulla testa, e che di recente papa Benedetto XVI ha opportunamente ricordato quanto sia decisiva per la fede cattolica.

La religione cattolica è invincibilmente una religione del visibile, della carne e del corpo, ed è necessariamente una religione della bellezza del visibile. Essa richiede l’immagine, al contrario di altre fedi che rifiutano l’immagine, o piuttosto che l’accettano solo in forme mostruose. Non si trova nulla in essa di quegli spettri e quelle bocche, di quelle maschere spaventose, di queste gorgone, di queste creature giganti e mostruose che così spesso sono le divinità di altre religioni. Il Diavolo è di rappresentazione tardiva, e soprattutto, non è un Dio.

Il vocabolario della teologia cristiana utilizza tre termini singolari: la transustanziazione, la trasfigurazione, la trasverberazione. Tutte e tre fanno riferimento a stati soprannaturali che fanno della materia di cui siamo impastati il
luogo di una rivelazione di ordine soprannaturale.

Trasfigurare è trasformare rendendo bello. E’ l’apparenza sotto la quale Cristo si mostra, sul monte Tabor, in un corpo di luce di fronte ai suoi discepoli.

Trasverberare è trapassare in modo spirituale il cuore di colui che la presenza di Dio ha invaso e che ne è trasportato.

La transustanziazione infine è la cosa più scandalosa da ammettere per il non credente poiché trasforma gli elementi più quotidiani, il pane e il vino, in corpo e sangue di Dio.

Tutte queste trasformazioni stupefacenti ci parlano di un’elevazione, dal buio verso la luce, dalla materia verso lo spirito, dall’immondo verso il mondo, dall’informe verso la forma. Forma e formosa in latino hanno la stessa origine. La forma è bellezza. Immaginare Dio è andare verso di lui attraverso una serie di trasfigurazioni verso la Bellezza.

L’antropologia freudiana ha elaborato un concetto che curiosamente si avvicina a questi processi della spiritualità cristiana; è la sublimazione. In poche parole, il processo di sublimazione è basato sulla padronanza delle passioni di cui l’umano è preda, ma la cui energia erotica viene condotta verso produzioni intellettuali o artistiche, il cui insieme costituisce quel che oggi chiamiamo “cultura”. Il passaggio dalla fase anale alla fase sessuale, l’uscita dalla cloaca del poppante verso la genitalità del bambino, è il primo passo dell’uomo civilizzato. Un secondo passo sarebbe quello della sessualità verso uno stato non sessualizzato, nel quale l’uomo consacra tutte le sue forze a creare le opere dello spirito.

Oltre a Freud vorrei citare il suo contemporaneo Proust. Nei suoi ricordi d’infanzia, evoca una misteriosa “transvertebrazione”, parola che è un ricalco della trasfigurazione e della trasverberazione cattoliche. Si tratta – come sapete – delle proprietà delle immagini luminose proiettate dalla lanterna magica che possono assumere le forme degli oggetti sulle quali si posano, di curvarsi, di arrotondarsi, di colorarsi differentemente sulla maniglia della porta o sugli altri arredi della camera. Golo e Genoveffa di Brabante divengono corpi di luce, come quelli delle vetrate, tanto più viventi in quanto immateriali. Proust impara dalla loro apparizione i fondamenti di quel che sarà l’estetica e l’etica dei personaggi luminosi e immateriali che sfilano nella ricerca del tempo perduto.

Ogni volta sono mirabili metafore dell’atto creativo. L’opera d’arte nasce dal limo, dalla terra, dalla scomposizione animale o vegetale, letame da cui trae i suoi preziosi materiali, le ocre, gli ossidi, i pigmenti, le tinture, i coloranti, le vernici, gli oli e anche le pietre macinate, i lapislazzuli per esempio, con cui farà l’azzurro del manto della Vergine. Sublimazione nel senso chimico: i materiali pesanti e tenebrosi si sono come volatilizzati, assottigliati, illuminati. E poi da questi materiali spiritualizzati, lo scarto divenuto oro, l’escremento divenuto spirito, la decomposizione è divenuta composizione, ricava – sublimazione di ordine spirituale – opere dalle forme ordinate e che rendono conto di un senso preciso, definito dalle Scritture.

Era forse necessaria questa introduzione troppo lunga per arrivare sino a oggi.

Superiamo i secoli; superiamo esattamente sedici secoli, per arrivare agli anni 60 della nostra era. Si sente di nuovo risuonare un canto d’amore verso la creazione, un’ode che esalta i cinque sensi e la bellezza della creazione: la citerò nella sua lingua originale, l’inglese, perché non oserei, per semplice decenza, leggerla in francese tra le pareti di questo Istituto:

“...Holy! Holy! Holy! Holy! Holy!
The world is holy, the soul is holy, the skin is holy,
The nose is holy, the tongue and cock and hand and ass hole, Holy!
Everything is Holy, everybody, is Holy.
Everywhere is holy
Every day is eternity
Every man’s an angel” (3).

Si tratta di un estratto di un poema (L’Urlo) di uno degli autori più conosciuti della Beat Generation americana, Allen Ginsberg. Siamo agli inizi del Flower Power, e di una morale edonista che preconizza un pansessualismo integrale, la libera unione, e la sregolatezza sistematica di tutti i sensi, attraverso l’uso illimitato di droghe. Ci suggerisce una sorta di stato adamitico, in cui il sacro sarebbe in ogni luogo, superando i limiti che sino ad allora lo contenevano, in ogni parte, in ogni momento, con la nudità vissuta come cosa santa e che farebbe dell’uomo un angelo.

Piuttosto ci vedrei la credenza che il male non esiste: un’apocatastasi, come dicono i testi antichi. L’uomo sarebbe per sempre innocente. Ma, a forza di negare il Male, l’angelismo finisce col celebrare gli attributi del Maligno: i peli, gli umori e gli odori forti, in breve tutti gli attributi che ai nostri occhi contraddistinguono le produzioni artistiche dette “d’avanguardia” ... I discepoli di Allen Ginsberg conosceranno in effetti la discesa agli Inferi, nella bolgia piena di liquido nero e puzzolente che Dante ha descritto nel suo Inferno.
Questa ode a Priapo, il piccolo dio deforme degli Antichi, scritta da un poeta americano, farebbe sorridere se il suo testo non fosse stato declamato a Notre Dame di Parigi, durante la Quaresima 2008, dal Commissario, al Centro Pompidou, di un’esposizione confusa come approccio intellettuale, ma soprattutto perversa come approccio morale, che è stata chiamata Tracce del sacro. Il sacro che vi si celebrava era in realtà più vicino a Carpocrate che a Sant’Agostino.

Potrebbe essere stato soltanto un incidente incongruo nel cammino di una Chiesa in difficoltà che, desiderando di condividere la modernità, finisce col scendere a patti
coi suoi nemici. La difficoltà appare chiara vedendo che questo nuovo Padre della Chiesa che canta le gioie di una genitalità ferma allo stadio anale – come quella dei bambini che espongono il loro sesso e il loro culo – diventa consigliere di un’antenna culturale della Chiesa a Parigi, affiancato da un teologo e da un altro che si è autoproclamato conservatore dei musei di Francia, per farvi arrivare opere decisamente ben lontane, mi sembra, da quelle che celebrava Sant’Agostino.

Ci sono nella storia della Chiesa episodi singolari come, nel XII e XIII secolo, la stupefacente moda dei Goliardi, chierici itineranti che scrivevano poesie erotiche e canzoni da taverna parecchio oscene, e che si dedicavano a fare parodie burlesche di messe e sacramenti della Chiesa. Ma i goliardi agivano così per criticare una Chiesa di cui denunciavano gli errori. Nulla di tutto ciò negli artisti d’avanguardia, che non hanno rapporti con la Chiesa, e neanche voglia di burlarsene. Il movimento dei goliardi era legato a un’epoca di grande religiosità e di grande misticismo, non a una manifestazione di indifferenza.

Potrebbero essere solo le singolari deviazioni di qualche bello spirito, se la proliferazione di queste incursioni estetiche nelle chiese di Francia, e la comunanza della loro natura, esibizionista e spesso coprolalica, non inducesse a interrogarci sulla relazione che il cattolicesimo intrattiene oggi con la nozione di Bellezza.

Mi limiterò a pochi esempi:
- In una piccola chiesa della Vandea nel 2001, accanto alla cassa di un santo
guaritore per il quale si viene da lontano in pellegrinaggio, si installa un’altra
cassa colma di antibiotici.
- Più recentemente, nel battistero di una grande chiesa a Parigi si installa
un’immensa macchina che fa colare liquido plastificante, lo sperma di Dio, su
enormi certificati di battesimo, venduti sul posto a 1500 euro l’uno.
- A Gap, il vescovo presenta un’opera di un artista d’avanguardia, Peter Fryer, che rappresenta Cristo nudo con le braccia distese, legato su una sedia
elettrica, come una Deposizione dalla Croce.
- Nel 2009, in una piccola chiesa di Finistère, una spogliarellista, Corinne Duval,
nell’ambito di un happening di danza contemporanea, sovvenzionata dal Ministero della Cultura, termina danzando nuda sull’altare.

La lista ha continuato ad allungarsi. Nel ruolo del Gentile che qui mi viene assegnato, mentre rabbrividisco dal freddo sul sagrato e mi è vietato entrare nel santuario, non posso certo erigermi a guardiano del Tempio. Come storico dell’arte, devo tuttavia tentare di comprendere il significato di queste manifestazioni culturali che ormai pretendono di accompagnare il culto divino, e leggere gli scritti che pretendono di giustificarle (4).
Alla fine di queste letture, in cui la cultura dell’immondo e dello scandalo pretende di giungere a illuminare il culto tradizionale, ero più costernato che spaventato.
Mi è sembrato che la loro filosofia sia basata su un odio della bellezza, un gusto per l’informe, per la lordura, per la sostanza corrotta e che cola, sull’attrazione verso la sofferenza fisica, un insieme di caratteri che essa sembra proporre alla riflessione dei fedeli solo per nutrire un altro odio, questa volta l’odio del cristianesimo, che anima un pensatore che si pretende nietzschiano, agli occhi del quale il Vangelo non sarebbe altro che dolorismo, afflizione, macerazione, sofferenza e accidia, tutto quello che in nostro confratello R. Rémond ha denunciato tempo fa nel suo libro sul nuovo anticristianesimo (5).

Infatti quel che vedo rinascere e svilupparsi in questi culti libertini così simili a quelli che praticano certe sette gnostiche del secondo secolo mi sembra effettivamente una nuova gnosi, secondo la quale la creatura è innocente, il mondo è malvagio e il cosmo imperfetto.

Non sono un teologo, ma come storico delle forme, sono colpito, in queste opere culturali dette “d’avanguardia” che oggi pretendono di far entrare nelle chiese la gioia della sofferenza e del male – mentre un tempo il culto tradizionale le combatteva con la sua liturgia –, dalla presenza ossessiva degli umori del corpo, privilegiando lo sperma, il sangue, il sudore, o il marciume, il pus nella frequente evocazione dell’aids. Naturalmente anche l’urina che, a proposito del Piss Christ dell’artista Andres Serrano, “imprescindibile star del mondo dell’arte e del mercato” secondo M. Brownstone, viene proclamata “portatrice di luce” in un’omelia del Padre allora incaricato di iniziare il clero francese ai misteri dell’arte contemporanea (6).

Si tratta in questi casi di un’imitatio perversa della liturgia cattolica? In effetti la religione cattolica intrattiene con gli umori del corpo legami che altre religioni non hanno. Il sudario di Cristo, il sudarium, è un oggetto particolarmente venerato. Io stesso ne ho esposto una riproduzione fedele in formato naturale, per il centenario della Biennale di Venezia nel 1995. Le autorità ecclesiastiche allora mi avevano domandato di precisare esattamente in quale contesto questa immagine sacra sarebbe stata esposta, al fine di evitare un sacrilegio. Le avevo rassicurate. Perché non dimostrano altrettanta precauzione quando si tratta di esporre opere contemporanee nelle chiese?

Il sangue è presente nel cattolicesimo. Le lacrime, e anche, nella devozione popolare, il latte della vergine. Ma questi umori, queste secrezioni sono sempre, quando vengono rappresentati, e non in corpore vili, semplicemente esposti alla vista dei fedeli, portatori di un senso che viene loro dal sublime. C’è il sudario, c’è anche la veronica, tenuta da una donna, che suggerisce il rapporto segreto che c’è tra il sangue rigeneratore di Cristo e l’apparizione di un’immagine, la nascita di un viso d’uomo su un tessuto, attraverso il gesto di una donna. Più precisi e ancora più inquietanti sono questi due episodi che si succedono, strettamente legati, che si imbrigliano e si riecheggiano l’un l’altro: l’episodio dell’emorroissa e quello della figlia di Giairo. La prima è una giovane donna, per la quale sono passati dodici anni dal nubilato, dodici anni durante i quali il suo sangue colava senza poterlo fermare. La seconda è la piccola figlia di Giairo che ha appena compiuto dodici anni e che entra nel nubilato. E Cristo benedice la prima e la guarisce e porta via la seconda, dice il Vangelo, non dalla morte, ma dal sonno. Che ricchezza, che stupefacente e sconcertante riflessione, questi episodi in cui sono evocati la nascita e la morte, il flusso periodico e il sangue di Cristo sulla Croce, e più tardi sugli altari... Quanti artisti, autori delle opere d’avanguardia esposte nelle chiese, che impongono la vista del sangue e di altri umori, hanno mai rispettato il simbolismo sublime di questi flussi corporei?

Lo stesso mistero dell’Eucaristia, che propriamente parlando è una teofagia, è la cosa a priori più ripugnante, più ignobile, più nauseante che si possa immaginare – benché da molto tempo i sacramentali che regolano la liturgia non le diano un senso preciso, e di fatto non la sublimino. Nessuna cerimonia sollecita così tanto i nostri cinque sensi, penetra così tanto le porte della carne quanto la celebrazione di questo cannibalismo straordinario; i suoni, le fiamme, gli incensi, le vesti da tragedia, la maestà dei movimenti e dei volti, il rubato dei canti, le parole e i silenzi creano per alcuni momenti, al centro del santuario, un cosmo simbolico in cui, sotto la forma dell’ostia, il sacrificio può avere luogo (7). E’ il cosmo di Sant’Agostino che domina la figura di Dio Pantocratore.

Sarei crudele se aggiungessi, a malincuore: “poteva”. Poiché questo sacramentale è scomparso. Restano solo queste opere d’avanguardia per cercare di ridare un senso a ciò che non ne ha più, e che, ai miei occhi, è solo una parodia assai misera.

E’ nel 2002 che viene pubblicato il dialogo tra G. Browstone e Monsignor Rouet. Dieci anni fa, Dieci anni durante i quali la Chiesa si è lasciata affascinare dalle avanguardie fino al punto di presumere che l’immondo e gli abomini offerti alla vista dai suoi artisti siano le migliori porte d’accesso alla verità del Vangelo.

Nel frattempo sono state segnate diverse tappe che non oso definire come una deriva.

Negli anni 70, la Chiesa non voleva conoscere dell’arte contemporanea altro che l’astrazione. Dopo le vetrate di Bazaine a Saint Séverin ci furono le vetrate di Jean Pierre Reynaud all’Abbazia di Noirlac, poi quelle commissionate a Morellet e a Viallat per Nevers, e di Soulages per l’abbazia di Conques, Il volto non esisteva più, il corpo non esisteva più, il crocifisso stesso fu allora sostituito da due pezzi di legno o di ferro saldati. Le lotte sanguinose dell’iconoclasmo sembravano non essere mai accadute. L’iconoclastia ormai era un fatto normale.

Poi, negli anni 80 e 90, le chiese, che nel frattempo si erano svuotate delle figure di santi e di sante, e anche dei quadri antichi e delle sculture, si sono riempite di icone bizantine, in generale non di originali, ma di cattive copie. Ora l’icona ortodossa è fondata su una teologia differente dalla teologia cattolica: è accompagnata, nei suoi canti, nei suoi gesti, nel suo cerimoniale, da una liturgia sconvolgente.

Allo stesso modo i protestanti attribuiscono all’astrazione un senso ben diverso dal nostro. Ebbi l’occasione di spiegarmi quando i nostri amici Protestanti di Ginevra mi invitarono ad andare a parlare a proposito del nuovo colore, rosso arancione, delle vetrate monocrome che avevano appena scelto per l’oratorio di Calvino. Infatti avevo parlato loro della Pietà.

Quante sono, nei musei di Stato, le opere che riguardano l’iconografia cattolica? 60%? 70%? Dalle crocifissioni alle deposizioni nel sepolcro, dalle circoncisioni ai martiri, dalle natività ai San Francesco d’Assisi... Contrariamente agli ortodossi che si inginocchiano e pregano davanti alle icone, anche quando esse si trovano ancora nei musei, è raro, nella Grande Galleria del Louvre, vedere un fedele fermarsi e pregare davanti a un Cristo in croce o davanti a una Madonna. Bisogna rimpiangerlo? A volte lo penso. La Chiesa dovrebbe domandare la restituzione dei suoi beni? Mi capita di pensare anche questo. Ma la Chiesa non ha più alcun potere, contrariamente ai Vanuatu o agli Indiani Haida della Colombia britannica, che hanno ottenuto la restituzione degli strumenti della loro fede, maschere e totem... La Chiesa si vergognerebbe di essere stata all’origine dei più prodigiosi tesori visivi che si siano mai avuti? Non potendo riaverli indietro, non potrebbe almeno prendere coscienza
dell’obbligo che non li si può lasciare senza spiegazione davanti a milioni di visitatori dei musei?

Questa religione della rappresentazione, della riflessione della figura, e del rispetto del volto, che non raccomanda né la Legge ritualistica del giudaismo né il distacco del mondo dei buddisti, né la spoliazione della Riforma, né il culto dell’icona degli ortodossi, la religione cattolica mi è apparsa per molto tempo come la più rispettosa del senso, la più attenta alle forme e ai profumi del mondo. E’ in essa che si incontra anche la più profonda e la più avvincente e sorprendente tenerezza. Il cattolicesimo mi sembra innanzitutto una religione non del distacco, né della conquista, né di un Dio geloso, ma una religione della tenerezza.
Non ne conosco altra che per esempio abbia a tal punto esaltato la maternità. E’ stato ancora uno dei nostri confratelli, François Cheng, a notare che il tema della Pietà, questa figura di una donna ancora giovane, che prende sul suo grembo il corpo non ancora del tutto preda della rigidità cadaverica del figlio crocifisso, è una delle più belle invenzioni della fede cattolica. Dico “invenzione”, poiché la sua immagine è di apparizione tardiva, nel XIV secolo, e non figura negli scritti canonici. Ma beata sia una religione che, dodici secoli dopo la sua diffusione, è ancora capace di suscitare immagini simili.
Quale religione ha dipinto tante volte, da Giotto a Maurice Denis, il bambino in tutte le posizioni dell’infanzia, gesti, sguardi, passioni di bambino, con le sue golosità e curiosità, quando è in piedi sulle ginocchia della madre? Come la Chiesa attuale ha potuto voltare le spalle a una tale ricchezza? Mi ricordo di un aneddoto molto significativo: il Cardinale Lustiger, un altro dei nostri confratelli, un giorno aveva domandato al pittore Zoran Music di dipingere una maternità. Conosceva la sua opera, sapeva anche che era stato deportato a Dachau. Music si sforzò di fare questo quadro di una madre col figlio. Non ci riuscì. Il soggetto era diventato ai suoi occhi impossibile da rappresentare. Tuttavia, dopo la sua morte, nei suoi cartoni ho ritrovato schizzi, disegni, pastelli, di piccolo formato. Non erano maternità. Erano Deposizioni dalla croce, Pietà... L’immagine ha decisamente un senso. Ben inteso, intendo l’immagine figurativa.

Nell’opera d’arte nata dal cristianesimo c’è anche altro, rispetto alla felicità visiva e alla pietà. C’è anche un approccio euristico del mondo.

Non ho il tempo di dilungarmi. In poche parole: la scienza e la tecnica si sono sviluppate in Occidente e soltanto in Occidente – la Cina e l’Islam lasceranno la presa – grazie al dono di un’osservazione e di una contemplazione uniche. La botanica comincia coi cento fiori scrupolosamente dipinti, l’uno dopo l’altro, da Van Eyck nella pala d’altare di Gand. E la zoologia comincia perché si cerca di sapere come gli animali dell’Eden si distribuiscano sulla grande Scala degli Esseri. Una simile
curiosità e ben presto una simile padronanza del mondo, erano già in nuce nel canto di grazia intonato da Sant’Agostino. Ma devo subito aggiungere, per non lasciare da parte l’Agnello mistico di Saint Bavon, che una rigorosa, scrupolosa e attenta osservazione delle Scritture ha determinato ogni personaggio, la sua apparenza, il suo rango, il suo ruolo, il colore di cui è vestito e la posizione che occupa nel quadro. La fabbricazione stessa dei colori e la quantità per esempio del lapislazzulo utilizzato, sono accuratamente pesati e controllati dai committenti: non si può dipingere qualsiasi cosa in qualsiasi modo. L’artista è al servizio di Dio, non degli uomini, e se dipinge la creazione, conosce le meraviglie del creato, custodisce nel suo spirito il fatto che queste creature non sono Dio, ma la testimonianza della bontà di Dio, e che sono lode e canto di allegrezza. Mi domando dove questa allegria si possa ancora sentire, quella che si sentiva in Bach o in Haendel, in queste manifestazioni culturali, così povere e così offensive per l’orecchio e per l’occhio, alle quali ormai le chiese aprono il loro culto.

Qui senza dubbio è stata e rimane oggi la grandezza della Chiesa: essa è nata dalla contemplazione e dall’adorazione di un bambino che nasce, e si fortifica con la visione di un uomo che risuscita. Tra questi due momenti, la Natività e la Pasqua, non ha smesso di lottare contro la “cultura della morte”, come dice così giustamente.

Questo coraggio, questa ostinazione rendono ancor più incomprensibile la sua tentazione di difendere opere che, ai miei occhi, alle “porte della mia carne”, sanno soltanto di morte e di disperazione.

Un Dio senza la presenza del Bello è più incomprensibile di un Bello senza la presenza di un Dio.


Hors propos - fuori contesto

Permettetemi di concludere con un ricordo di infanzia. Una piccola chiesa di campagna, col tetto in ardesia, i muri in calce. La messa la domenica, una sorta di opera totale o, come nel testo di Agostino, i cinque sensi erano volta a volta sollecitati; la vista con gli abiti cangianti del prete, l’udito con i canti dei bambini e l’armonium, l’odorato con i profumi mischiati delle candele e del cero degli inginocchiatoi, che trovava la sua corona nei funi dell’incenso, il toccare con il contatto rugoso con i vecchi messali in cuoio, il gusto nel contatto insipido con l’ostia e forse col presentimento di altro rispetto a questi corpi quasi immateriali, i corpi di luce dei santi disegnati sulle vetrate e più immateriale ancora il corpo bianco e luminoso, che si elevava sull’altare, presenza di un Dio al quale questa piccola opera era, e a Lui solo, destinata. Vi ho gustato l’emozione che provava Proust nelle
sue trasverberazioni. E forse anche, mi ero avvicinato, senza saperlo ancora, a certi misteri. Un canto ben modesto paragonato ai grandi scritti che Sant’Agostino ascoltava per accertarsi dell’esistenza di Dio. Un canto tuttavia.

Un giorno, avevo tredici anni, una parigina in villeggiatura in questo piccolo paese, infatuata d’avanguardia, di modernità e di musica elettronica, volle offrire uno spettacolo d’vanguardia ai piccoli paesani che venivano qui alla messa. Furono, per un’ora, rumori assordanti e dissonanti, proiezione di spot luminosi stridenti, recitazione di poesie futuriste, Non fui spaventato ma, per dire la parola giusta, nauseato. In un solo istante, il sacro aveva abbandonato questo luogo così povero, e la volgarità senza speranza del mondo contemporaneo vi si era installata, Non ho mai, dopo questa profanazione arrogante e insensata, mai varcato la soglia di una chiesa.

O piuttosto sì: ogni volta che a Venezia vado a rivedere i mosaici della Basilica di San Marco, mi presento la domenica alle undici alla porta nord, dicendo che vado ad assistere alla messa. E’ il solo sotterfugio capace ormai di farmi accedere a questo luogo, nel quale, attraverso code interminabili, penetrano a migliaia, per la porta ovest, i turisti. E’ un curioso capovolgimento delle cose, ma mi sembra che sia perverso.


Jean Clair

Conversazione tenuta nell’Institut de France in occasione del Cortile dei Gentili, Parigi 25 marzo 2011

(Traduzione Flora Crescini ed Enrica Zaira Merlo)

1 Sant’Agostino, Le Confessioni, Libro X, VI, 9
2 Idem, XVII, 38
3 Allen Ginsberg, Howl, trad. Fr. Jean Jaques Lebel, Pris, Cristian Bourgois, 2005 [Santo! Santo! Santo! Santo! Santo! Santo! Santo! / Il mondo è santo! L’anima è santa! La pelle è santa! / Il naso è santo! La lingua e il cazzo e la mano e il buco del culo sono santi! Tutto è santo! tutti sono santi! dappertutto è santo! / tutti i giorni sono nell’eternità! Ognuno è un angelo!]
4 Quindi ho letto il dialogo tra G. Brownston e Monsignor Rouet, ho letto J. Alexandre e C. Grenier, ho letto J. De Loisy...; Gilbert Brownstone et Monseigneur Albert Rouet,L’Eglise et l’art d’avant-garde, Paris Albin Michel, 2002 . V. la critique qu’en a faite Alain Beasancon in Commentaire, n° 104, hiver 2003
5 Renè Rèmond, Le Nouvel Anti-Christianisme, Desclée de Brouwer, PAris, 2005 . Le « penseur » est Michel Onfray
6 Le père Robert Pousseur, dans son projet “La Chair et Dieu"
7 V. Cristina Campo, “Sens surnaturels” in Les Impardonnables, Paris, L’Arpenteur, Gallimard, 1992, p. 305 sq